Abbiamo incontrato Laura Serrani, che vive a Londra dal 2015. Formatasi inizialmente in Italia in Gestalt Counselling, ha proseguito i suoi studi conseguendo una Laurea Specialistica (MA) in Integrative Counselling and Psychotherapy for Children, Adolescents and Families presso la University of Roehampton.
Membro di BACP (British Association for Counselling and Psichotherapy), oggi lavora come counselor privatamente e gestisce progetti di counseling in scuole primarie a Londra. I suoi interessi di ricerca si focalizzano attorno al ruolo del multilinguismo nella relazione di aiuto. È particolarmente interessata ai processi di integrazione linguistico-culturale e al ruolo che il professionista della relazione di aiuto gioca in questo ambito. È autrice di un articolo che tratta della materia, pubblicato su Counseling and Psychotherapy Research, rivista specializzata di BACP (©British Association for Counseling and Psychotherapy), alla quale si accede dal link inserito a fondo pagina, dove sono riportati anche l’abstract in lingua originale e la bibliografia.
Lorenzo Bianchi: Vivi e lavori ormai da diversi anni a Londra. Ci puoi dire qualcosa del tuo percorso professionale e di che cosa ti occupi adesso?
Laura Serrani: Dopo la laurea in Filosofia ho lavorato per diversi anni come tutor di ragazzi dislessici. Avvicinatami al counseling in Italia, dopo il diploma mi sono successivamente trasferita a Londra dove ho conseguito una specializzazione su bambini, adolescenti e famiglie. Nelle scuole mi occupo di quello che qui viene chiamato early intervention, ovvero di supporto volto alla prevenzione del disagio. Inoltre lavoro privatamente con clienti adulti.
LB: Stiamo vivendo un momento storico caratterizzato da intensi processi di globalizzazione, movimenti di popolazioni e interazioni digitali. Come si colloca il multilinguismo, fulcro centrale della tua ricerca, nello scenario corrente?
LS: È innegabile come il multilinguismo sia al centro di dinamiche sociali e culturali accelerate dai maggiori scambi, anche e soprattutto virtuali, tra lingue e culture diverse. La mia ricerca si propone di fornire nuove prospettive e approfondimenti che possano aiutare tutti i professionisti della relazione di aiuto a orientarsi tra le sfide e le opportunità presentate dal multilinguismo.
LB: Su cosa verte esattamente?
LS: La mia ricerca si basa su una raccolta sistematica della letteratura prodotta e mira a una riflessione su alcune domande centrali all’esperienza dei clienti multilingue in una relazione d’aiuto: quali sono i significati attribuiti dai clienti al fatto di essere multilingue? E come tali significati influenzano la relazione d’aiuto e l’identità dei clienti stessi?
LB: Non posso non pensare alla mia esperienza professionale e a quella dei miei colleghi del Respond Crisis Translation, molto spesso a contatto con migranti e profughi in situazioni comunicative dove gli aspetti umanitari si intrecciano a bisogni di autoespressione e identitari. Che impatto ha il tuo lavoro su una figura che sta diventando sempre di più centrale in questi contesti, ovvero quella del mediatore linguistico e culturale?
LS: Il mediatore culturale è una figura ponte tra due sistemi di valori, credenze, linguaggio, comportamenti, codici emotivi. Assorbe per certi versi i processi cognitivi e le esperienze emotive connessi al cosiddetto acculturation process ossia il processo di entrare a sentirsi parte di un’altra cultura. Tutto questo è emotivamente e intellettualmente molto impegnativo e costoso. Le lingue “mediate” non sono solo traduzioni tecniche ma catalizzatori di significati dei quali molto spesso non siamo consapevoli, il mio lavoro va in questa direzione.
LB: Laura, nelle nostre chiacchierate abbiamo discusso a lungo del rapporto che intercorre tra identità e uso di una o più lingue straniere, e delle implicazioni di questo rapporto sulla relazione d’aiuto. Puoi condividere con i nostri lettori che ripercussioni ha avuto sulla tua relazione con le lingue straniere?
LS: Certo. Ho sempre sentito una profonda passione e motivazione nell’imparare le lingue. È un viaggio che per me è veramente iniziato quando avevo 21 anni, studiando a Parigi. Da allora, il francese è diventata la lingua del mio io “adolescente libero”, aiutandomi a maturare oltre la cultura italiana in cui sono cresciuta.
LB: Come si inserisce, invece, l’inglese nella tua identità linguistica?
LS: L’inglese è fondamentale: rappresenta il mio passaggio all’età adulta. Ha ampliato i miei orizzonti, permettendomi di sviluppare nuovi valori e credenze culturali distinte e separate dal mio background italiano. È stato illuminante notare anche come, nella mia terapia personale, usare l’inglese per elaborare i fatti abbia trasformato significativamente le mie idee e le mie reazioni alle emozioni.
LB: Puoi approfondire come l’uso dell’inglese ha influenzato la tua autoregolazione emotiva?
LS: Quando le emozioni divenivano per me soverchianti, mi si rendeva essenziale fermami e pensare in inglese. Questo mi obbligava a chiarire i miei pensieri prima di esprimerli. Questo requisito di coerenza in inglese mi ha fornito dei confini linguistici che mi hanno aiutato a gestire e attualizzare i miei sentimenti, distanziandomi così dalle intense emozioni legate alla mia madrelingua italiana.
LB: La lingua straniera come filtro e defusione cognitiva, quindi. E invece l’italiano?
LS: Be’, l’italiano è la lingua del mio cuore. È dove conservo l’eredità della mia storia personale e le radici della mia narrazione. Nonostante i ruoli cruciali del francese e dell’inglese nella mia identità, l’italiano incapsula il mio sé più intimo. Ma ti dirò, ho recentemente iniziato a sognare in inglese con un maggiore coinvolgimento emotivo: lo considero un segno del cambiamento in atto.
LB: Parlando di cambiamento: hai accennato al ruolo che il tuo percorso di crescita personale ha avuto nell’esplorare le dinamiche innescate dall’uso di lingue diverse. Come ha contribuito questo al miglioramento della tua autoconsapevolezza?
LS: Questa esplorazione è stata per me fondamentale. Mi ha portato a confrontarmi con il motivo per cui inizialmente parlare inglese mi irritava così tanto, nonostante mi fossi trasferita a Londra di mia volontà e avessi scelto una professione incentrata sulla comunicazione. Queste riflessioni, radicate nel mio disagio con l’inglese, mi hanno anche fatto dubitare della mia capacità di condurre colloqui in questa lingua.
LB: E quali scoperte hai fatto sulla tua relazione con l’inglese durante questo processo?
LS: Mi sono resa conto che la mia riluttanza ad abbracciare l’inglese derivava dal fatto che mi era stato imposto durante la mia formazione, a differenza del francese, che ho scelto di imparare di mia volontà. Questa mancanza di scelta influenzava la mia connessione emotiva con la lingua inglese e quindi con le relazioni da essa mediate, a meno che non ci fosse già un legame personale più profondo. Vedi, non mi ritenevo “all’altezza” dell’inglese, dell’autorevolezza che le attribuivo come lingua, del privilegio che comportava; mi sentivo quasi un impostore, per richiamare le parole di Jhumpa Lahiri , scrittrice che so essere cara anche a te. Vi era chiaramente una dinamica di potere in atto. Solo dopo avere esperito una connessione più profonda sono stata in grado di parlare inglese più fluentemente e di sentirmi più a mio agio con me stessa.
LB: E immagino che questo differisca dalla tua esperienza con il francese e l’italiano?
LS: Sì, abbastanza significativamente. Non mi sono mai sentita infastidita parlando francese, e penso che ciò sia perché è stata una mia scelta impararlo. L’italiano, anche se non scelto da me, non mi sembra imposto. È profondamente intrecciato con il mio processo di crescita.
LB: Il che ci porta vicino ai temi centrali della scelta e dell’identità. Se ricordo bene è cambiato qualcosa durante il primo lockdown?
LS: Sì. Non potendo tornare nel mio paese, la solitudine ha rappresentato, nelle parole di Clark Moustakas, l’occasione di espandere la mia autoconsapevolezza. Ho notato che passavo continuamente da una lingua all’altra. Questo alternarsi, nel contesto della traduzione, rappresenta un cammino attraverso la differenza tra significato e significante, un processo inizialmente implicito e poi reso esplicito.
LB: In altre parole una sorta di code-switching istintivo? Raccontaci di più di questo processo.
LS: Mi sentivo distante dalla mia cultura d’origine. Non riuscivo a trovare le parole giuste in italiano per esprimere i miei pensieri, che ormai erano profondamente radicati nella cultura britannica e nella lingua inglese, rendendo difficoltosa la traduzione. È stato allora che ho sentito per la prima volta un vero senso di appartenenza, una nuova intimità con quella lingua.
LB: E come si è evoluto il tuo quadro di riferimento interno in questo percorso?
LS: C’è stato un processo di decostruzione e ricostruzione. Le mie classificazioni e interpretazioni sono cambiate. Andando più a fondo nel processo di riflessione, ho sentito il bisogno di scrivere il mio diario di ricerca in italiano, cosa che mi ha sorpreso, avendo io sempre impiegato l’inglese negli ultimi tre anni. In italiano, ho scoperto di riuscire a collegare i concetti più rapidamente rispetto al passato.
LB: Come si è riflesso tutto ciò sul modo in cui vivi attualmente la tua professione?
LS: Il mio percorso di ricerca mi ha permesso di lavorare sull’ansia di non essere una buona counselor solo perché l’inglese non è la mia prima lingua. Oltre i risvolti professionali, ci sono quelli personali. Per esempio, non mi sento più in colpa per essermi trasferita a Londra. E mi sento a mio agio come counselor, nonostante errori e pronunce sbagliate.
LB: Laura, la tua auto-etnografia linguistica ti ha fornito una prospettiva privilegiata su questi fenomeni. Potresti darci degli esempi di consapevolezze acquisite dai clienti presenti in letteratura?
LS: La mia ricerca e l’esperienza diretta mi hanno permesso di osservare diversi casi che riflettono l’importanza della lingua nella relazione di aiuto. Un esempio significativo che ho riportato è quello di Elena, una giovane di 20 anni, di madrelingua italiana, la quale preferiva usare l’inglese durante il colloquio per non identificarsi come italiana. Cercava rassicurazioni dal suo terapeuta sulla sua fluidità in inglese, e l’esprimersi in inglese le ha permesso di lavorare sulla sua identità. Oppure quello di Yolanda, una cliente di 23 anni di madrelingua spagnola, che in una certa occasione cercava di ricordare la parola inglese per “nipote” e ha sentito finalmente che qualcuno si “stava prendendo cura di lei” quando il suo terapeuta ha riconosciuto la sua difficoltà nel “trovare le parole per esprimersi”. L’uso di una lingua non nativa in una relazione d’aiuto può diventare un’esperienza alienante se le difficoltà comunicative non vengono affrontate adeguatamente.
LB: I casi che hai citato mettono in luce il legame fondamentale che unisce identità, accettazione di sé e multilinguismo. Puoi aiutarci a sintetizzare i punti chiave emersi dalla letteratura?
LS: Innanzitutto, l’accento gioca un ruolo cruciale nella percezione di sé e degli altri. Questo aspetto è decisivo nella formazione dell’identità, come mostrato nel caso di un altro cliente che ha sperimentato ansia sociale a causa del suo accento diverso. Un altro aspetto importante è l’impatto dell’identità bilingue sulla relazione d’aiuto. Se questa non viene riconosciuta e affrontata, può portare a sentimenti di esclusione con gravi ripercussioni sulla salute mentale e sullo sviluppo del parlante. Penso al caso di Maria, una bambina di 8 anni, l’adattamento del trattamento alla sua esperienza bilingue ha portato a una riduzione dei sintomi, e ciò sottolinea l’importanza di considerare l’esperienza bilingue dei clienti. Le famiglie multilingue spesso incontrano sfide nella comunicazione. Vaquero e Williams hanno osservato difficoltà comunicative tra genitori e figli dovute a differenze nei loro profili linguistici, che hanno spesso comportato difficoltà sia linguistiche sia emotive per i secondi. In ultima analisi il multilinguismo può influenzare la sensazione di potere personale e di agency, in particolare in bambini e adolescenti che si trovano a gestire più lingue. Pensiamo alle famiglie di immigrati di seconda generazione, dove la dominanza di una lingua rispetto a un’altra può andare a modificare le dinamiche di potere familiari, influenzando l’identità e le relazioni all’interno della famiglia.
LB: Ci hai dato davvero molto su cui riflettere. Prima di lasciarci, hai consigli o considerazioni che vorresti condividere con i counselor italiani che volessero avvicinarsi a questi temi?
LS: Volentieri. Parto dalla premessa che l’aggiornamento continuo è fondamentale. Per esempio, la British Association for Counselling and Psychotherapy ha incluso una serie di competenze specifiche per lavorare in modo linguisticamente attento con bambini e giovani, che possono essere utili anche per i counselor italiani. È importante, inoltre, perseguire una costante autoeducazione al diverso. Chiediamoci come sia vissuta la relazione d’aiuto nelle altre culture. Molti processi culturali sono agiti inconsapevolmente dai clienti. Il nostro compito di professionisti è aiutare il cliente a renderli consapevoli, visibili. Così come da parte nostra dovremmo sempre essere consapevoli delle dinamiche di potere inconsce che lingue e culture possono comportare. Lavorare su di noi significa anche leggere romanzi, biografie, viaggiare, aprirsi a tutto quello che possa offrire un insight nelle altre culture.
LB: Grazie di cuore per le tue parole e del tuo tempo, Laura.
LS: Grazie a te, Lorenzo. Desidero rinnovare la mia disponibilità a chiunque dei nostri lettori e lettrici desideri contattarmi riguardo a questo argomento, scrivendomi a questo indirizzo email: lserrani852@gmail.com.
Serrani, L. (2023). A journey through languages: A systematic literature review on the multilingual experience in counselling and psychotherapy with children and adolescents. in “Counselling and Psychotherapy Research”, 23, 6–19. https://doi.org/10.1002/capr.12593
Image credit: Gaia Sommariva, scenografa e Visual artist. Maggiori informazioni sul sito web e su Linkedin.