Sembrerebbe ovvio che da professionistə non ci si metta comodə sulle coordinate che sono note e quindi sicure, tuttavia l’incontro con la differenza a volte rischia di far scricchiolare la propria epistemologia, così come alcuni dei consueti costrutti formativi, informativi e culturali.
Un articolo scritto a quattro mani da due esponentə del gruppo, AssoLGBTQ+ ci aiuta a identificare gli strumenti e le pratiche per porsi nella “relazione professionale” con famigliə lgbtqia+ e persone tgnc (transgender e gender nonconforming), nella quale fondamentali sono competenze, linguaggio e gestualità posturale.
“Non esiste un modo di essere e di vivere che sia il migliore di tutti. La famiglia di oggi non è né più né meno perfetta di quella di ieri: è diversa perché diverse sono le circostanze”. Così scriveva Émile Durkheim nel 1888, ed è una citazione che troviamo nei moltissimi testi che si occupano delle famiglie, in sociologia, educazione, psicologia, antropologia, counseling. Senza dubbio una citazione fortunata dal punto di vista accademico; ma viene anche da chiedersi – ed è una domanda legittima – se la medesima fortuna si realizzi sul piano della formazione dellə professionistə, cioè in quell’area del sapere che traduce le conoscenze in competenze.
Parlare delle cosiddette nuove famiglie apre uno scenario di enorme vastità; qui intendiamo limitarci a riflettere sulla postura professionale dellə counselor quando incontra coppie, famiglie, o singole persone che si identificano al di fuori di relazioni eterosessuali e/o monogamiche e/o cisgender; per farlo non useremo l’aggettivo “nuove”, ma semplicemente parleremo di famigliə intendendo ogni forma di relazione affettiva che le persone intenzionalmente definiscono “famiglia”.
Un primo punto riguarda la formazione iniziale e permanente dellə counselor: quanto costante è stata la declinazione di un plurale obbligatorio o piuttosto quanto questi concetti siano entrati solo in maniera episodica nel percorso formativo. Stiamo dando per assodato che il tema “famigliə” sia effettivamente stato presente, se non altro in termini informativi. Come gruppo di studio ci siamo interrogatə a lungo, e ci pare di poter dire che, salvo poche eccezioni, c’è una difformità di trattazione tra LA famiglia – all’interno di una cornice eterosessuale, monogamica, cisgender – e lə famigliə; di fatto siamo di fronte a una sorta di imprinting metodologico e contenutistico che dà allə counselor in formazione due errate informazioni:
- tuttə lə famigliə sono uguali, sottendendo così che sapere e saper lavorare con una certa tipologia di famigliə consenta di saper gestire la relazione professionale con qualunque tipo di famigliə. Una sorta di metonimia sociale che azzera le specificità e le necessarie conoscenze e competenze. Questo non significa che gran parte delle tematiche non siano condivisibili tra lə famigliə e le famiglie; nondimeno vi sono aspetti che riguardano specificatamente lə famigliə e di cui unə professionista deve essere ben consapevole.
- il criterio di maggioranza (statistica?) è un buon criterio di analisi e comprensione sociale; come a dire che le minoranze non sono di per sé elementi significativi del pluriverso umano con cui – da professionistə – intendiamo relazionarci, se non all’interno di un rapporto maggioranza/minoranza; ma è proprio l’assunzione di questo sguardo (maggioranza/minoranza) uno dei fondamentali snodi problematici. Consideriamo, per esempio tutta la retorica sulla “famiglia naturale” che attribuisce il carattere di “naturale” a quello che in realtà è un dato numerico (“siccome sono tante, allora la natura è così”).
In molti studi e documenti stranieri viene evidenziato un ulteriore aspetto che riguarda il quadro epistemologico dei vari approcci al counseling, e che non sempre considerano le diversità in maniera adeguata. Non servono infine molte parole per ribadire la totale infondatezza di qualunque teoria di conversione o riparativa, una pratica condannata senza incertezze da tutto il mondo scientifico e – in alcuni Paesi – vietata per legge.
Alle lacune formative istituzionali si può rispondere con la formazione personale: non mancano corsi, seminari, articoli e libri. Anche se il training formativo è il luogo per eccellenza in cui si intersecano conoscenze teoriche, abilità personali e competenze metodologiche.
Un atteggiamento professionale da evitare è quello di considerare le persone come fonte di informazione: una sorta di folklorizzazione che stereotipizza le persone, per cui un cliente gay, unə clientə transgender, una coppia lesbica sono rappresentanti di una loro immaginaria categoria e quindi tenutə a (saper) rispondere a domande e questioni generali, che esulano dalla soggettività individuale e dalla storia personale.
L’intersezionalità è una cornice esplicativa che può essere assunta come una meta-teoria trasversale ai diversi approcci, che aiuta a comprendere non solo le radici, ma anche le ramificazioni dei processi di discriminazione che colpiscono precisi gruppi e singole persone, accogliendo la profonda e dolorosa complessità degli effetti – pur a fronte di manifestazioni spesso banali nella loro grettezza.
Un secondo punto è la “ginnastica posturale” che unə counselor deve attuare nell’ascolto del racconto che lə famigliə fanno di sé. Vi sono costrutti narrativi interni che scardinano luoghi comuni tipici delle famiglie, uno su tutti quello legato ai ruoli di genere; l’appartenenza a generi diversi non è la base costitutiva di unə famigliə, così come la fluidità o la non appartenenza a un certo genere possono essere fattori vissuti serenamente. Gli effetti sono quelli di famigliə che necessariamente mettono in discussione i ruoli stereotipati, con un importante esercizio al contempo creativo e negoziale, non altrettanto frequente nelle famiglie. La necessità è determinata dall’assenza degli attori di un copione familiare usuale, garanzia aprioristica di uno status quo transgenerazionale.
Un’altra area di cui facciamo un accenno tanto breve quanto indispensabile concerne tutta la sfera dell’eros e della sessualità, dove spesso tanto lo studio sessuologico quanto l’esperienza personale costruiscono un bagaglio di strumenti di fatto troppo limitato.
Il terzo punto è costituito da pregiudizi, stereotipi e bias. Va da sé che l’autoriflessività, la supervisione, il confronto professionale siano strumenti sostanziali per tuttə per esplorare i limiti della propria comprensione; su questi aspetti, c’è un’enfasi peculiare che deve essere posta da chi si identifica come eterosessuale e/o cisgender e/o monogamə, condizioni che non vengono messe in discussione, ma accettate come “normali” e che rappresentano parzialmente – o per nulla – quelle delle persone lgbtqia+.
Nell’incontro con lə famigliə, la postura dell’accettazione incondizionata passa attraverso un atteggiamento di rispetto assoluto, che riconosce come legittima ogni forma di relazione, genere, sessualità e amore. Non serve essere omofobə per mettere in atto comportamenti o attitudini discriminatorie: considerare che un bambino o una bambina abbiano bisogno di un papà e di una mamma, significa non riconoscere la pienezza genitoriale delle coppie omosessuali o di unə genitorə single o dellə famigliə diversamente compostə. È un costante processo autoriflessivo che riguarda anche counselor appartenenti alla comunità lgbtqia+, che rischiano a loro volta di idealizzare lə famigliə non riconoscendo che malesseri e disfunzionamenti appartengono in egual misura allə famigliə e alle famiglie.
Come professionistə dobbiamo avere ben chiaro che la stigmatizzazione, l’oppressione, la repressione e anche la normativa incidono nella vita delle persone che fanno parte della comunità lgbtqia+, in primo luogo sul piano delle biografie individuali; quando alla dimensione individuale subentra la costruzione di coppiə e/o famigliə, i processi discriminatori non cessano, talvolta si moltiplicano – per esempio nell’incontro con le istituzioni scolastiche, sanitarie o con le famiglie d’origine. È una condizione non incidentale, che per fortuna ha sempre meno una valenza pervasiva, e che va connotata contestualmente.
L’accettazione incondizionata, l’astensione dal giudizio, la congruità interrogano la qualità della nostra interazione umana ancor prima che professionale; riconoscere e accettare la scomodità dell’incertezza e della difficoltà a capire, consente di avvicinare con umiltà e delicatezza le richieste dellə famigliə, condividendone fatiche e traguardi.
La scarna narrazione corrente sulle persone transgender e gender nonconforming (tgnc) induce a credere che le loro rivendicazioni più urgenti vertano sui pronomi, la scelta fra schwa o altri segni, i bagni pubblici no-gender. Dobbiamo prendere atto, invece, che questi sono semplicemente i temi che fanno presa sull’immaginario di chi non conosce queste realtà e solo collaterali a reali bisogni e richieste che ci vengono dal mondo T*.
Nel termine mondo T* (laddove l’asterisco allude al pluralismo) includiamo un variegato spettro di soggettività accomunate da una spinta a porsi in maniera critica sul tema del genere e determinarsi in maniera altra rispetto alla prassi della cultura binaria occidentale contemporanea. Di questo mondo fanno parte, fra le altre: persone trans, che hanno intrapreso o compiuto un percorso di riaffermazione di genere, con interventi sanitari e burocratico/amministrativi; persone di genere non binario (non binarie, genderqueer, gender-fluid, gender-questioning), che non si identificano stabilmente nei due generi principali; intersex, che presentano organi sessuali esterni di entrambi i sessi e/o un corredo ormonale aspecifico; cross-dresser, che esprimono il bisogno di adottare un’espressione esteriore di genere diversa da quella convenzionalmente riferita al genere assegnato loro alla nascita.
La varietà di istanze individuali che induce a mettere in discussione il genere, la moltitudine di denominazioni, la necessità di ricorrere a inglesismi ci devono far riflettere sulla complessità di temi che questa costellazione di persone presenta alla nostra società binaria, eterocentrica e androcentrica, quindi sostanzialmente impreparata ad accoglierli. Di conseguenza, queste persone possono voler esplorare con il supporto del counseling questioni che afferiscono ad ambiti estremamente diversi.
Mentre è necessario lavorare insieme, come categoria professionale, all’educazione sociale su queste tematiche per la costruzione di una cultura espansa, autenticamente inclusiva e valorizzante della diversità, come singole e singoli è indispensabile compiere un primo importante passo: riconoscere di aver ricevuto un’educazione in una società escludente e spesso stigmatizzante verso le persone tgnc, la quale ha lasciato influssi in noi, difficili da eradicare nonostante la formazione e l’impegno professionali. Questo è un passaggio propedeutico indispensabile che, insieme a supervisione e confronto professionale, rendono più funzionale la postura ed efficaci le azioni che noi counselor possiamo mettere in atto perché i nostri setting, interno ed esterno, diventino inclusivi verso clienti di genere non conforme.
Chi intraprende un percorso di counseling con una persona tgnc è opportuno che acquisisca competenza sulle specifiche questioni con cui questa si confronta. La competenza si nutre della conoscenza, per lo meno a grandi linee, dei temi e delle prove che lə cliente affronta: per fare un esempio, nel caso di una persona trans, opzioni, protocolli, fasi e tempi dei percorsi di affermazione di genere. Accanto all’informazione, la competenza aumenta e si esprime grazie alla capacità di condividere un lessico comune con lə cliente, che userà definizioni e termini – spesso acronimi oscuri – che sente più appropriati per definire sé e il mondo osservato attraverso le sue lenti.
Riguardo al tema del linguaggio, riconosciamo che la discussione sulla scelta del pronome e di un alias, dimostrano effettivamente attenzione verso lə cliente tgnc, specie se questa non rimane un’azione ma diviene una prassi che ha ricadute in tutte le fasi del percorso di counseling: su come lə counselor presenta sé stessə, sulla modulistica professionale, sulla scelta di termini ed esempi non binari durante i colloqui. Perché questo requisito formale acquisisca la qualità di autentica rogersiana accettazione positiva e incondizionata è necessario che lə counselor risponda al grado di fluidità funzionale al processo dellə cliente, che deve poter vivere il setting professionale come uno spazio sicuro in cui esprimere la propria personale evoluzione: lo studio dove avvengono i colloqui può addirittura divenire il luogo in cui lə cliente sperimenta le proprie modalità per proporsi al mondo – riguardo al nome, ai pronomi, all’aspetto esteriore – e le sue emozioni nel ricevere riscontri. Lə professionista deve quindi allenare la propria apertura e dimostrare la capacità di accogliere le diverse scelte e i cambiamenti con la genuinità che Rogers insegna: a tal scopo, è funzionale utilizzare il feedback fenomenologico per rispondere all’aspettativa dellə cliente di essere vistə e, al contempo, non trasmettere né valutazione, né interpretazione, né sostegno. Bisogna ricordare che, a differenza di quanto sarebbe comodo credere, sempre più chiaramente le persone tgnc reclamano di compiere un percorso evolutivo e trasformativo individuale personalizzato, che può non essere lineare, unidirezionale, né presupporre che il punto di arrivo sia individuato esattamente già alla partenza.
Sapendo questo, comprendiamo come i protocolli tradizionali che governano la riassegnazione di genere, la normativa vecchia e ampiamente lacunosa e la conseguente arbitrarietà di tempi e fasi delle procedure amministrative, siano motivo di diffuso stress, frustrazione, rabbia nelle persone trans. Non di meno, le stesse emozioni sono scatenate dalle interazioni quotidiane con una società che spinge a continui coming-out e forza chiarimenti e semplificazioni: nella migliore prospettiva, richiede, più o meno esplicitamente, alla persona di fare formazione e dare informazioni; nelle peggiori, risulta escludente, stigmatizzante e avversa. Ne consegue che le persone tgnc provano altrettanto di frequente senso di insicurezza, di inadeguatezza, timori e paure.
Il lavoro sulle emozioni nel contesto del counseling risulta essenziale al fine di incrementare l’empowerment di chi non ha altra possibilità che rinforzare sé per fronteggiare le continue asperità della società. Accanto a un approccio che faciliti l’emersione e il riconoscimento del mondo emotivo di ispirazione gestaltica, il modello bipolare e sequenziale di Carkhuff è d’ispirazione a rispondere sui vissuti e discernere le pressioni che subisce effettivamente l’individuo da quelle rivolte alla comunità di riferimento, personalizzare una modalità strategica adeguata a risorse e propositi personali, iniziare azioni funzionali alla propria evoluzione.
Il corpo è terreno di intenso lavoro per le persone tgnc che, in generale, desiderano una casa esteriore più rispondente al mondo interiore che la abita. Laddove non si ravvedano le pieghe di una disforia, il counseling può facilitare il contatto con il proprio corpo e l’espressione della relazione con esso nei qui e ora del percorso, l’accettazione e la volontà di trasformazione, le direzioni da intraprendere. L’espressione artistica, attraverso l’uso delle immagini, dei suoni, del movimento, ad esempio seguendo la pratica della Gestalt, può consentire un lavoro delicato e utile a far emergere bisogni e desideri, quanto a confrontare aspettative irrealistiche o quasi magiche.
Accanto e a conclusione di questo, bisogna ricordare che le persone tgnc lavorano, abitano, intrattengono relazioni affettive, hanno una vita ricca, bella e sfidante come quella di chiunque: la richiesta di accompagnamento attraverso il counseling in un momento di percepita difficoltà o trasformazione può non avere come obiettivo una questione direttamente correlata con l’identità di genere. Tuttavia, lə counselor deve tenere presente il peso rilevante di un possibile minority stress a cui le persone appartenenti a questa comunità sono soggette per la propria espressione di genere, a causa della quale un processo intimo e personale viene involontariamente palesato acquisendo un valore sociale, talvolta indesiderato. Al contempo, è importante non cadere nelle semplificazioni e verificare se e quanto l’appartenenza a una minoranza influenzi il lavoro sull’obiettivo e comporti un ostacolo a raggiungerlo in autonomia.
Il lavoro con le differenze rappresenta sempre un banco di verifica della nostra capacità di inclusione, come professioniste e professionisti ancorché come esseri umani. In particolare, la pratica del counseling con il mondo T*, ci propone il privilegio di una sfida più alta: accettare di stare in una postura in divenire, saper riconoscere bellezza e compiutezza a ciò che permane non conforme e fluido. Se cogliamo questa sfida come un’opportunità, diverremo catalizzatori di una evoluzione sociale necessaria, dall’inclusione della differenza alla comprensione della complessità.
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