L’avvocata e counselor Lara Benetti, in questa intervista, ci spiega quali sono le dimensioni del problema, quali gli strumenti più utili per prevenirlo e affrontarlo e come la figura del counselor può essere d’aiuto. La violenza sulle donne, infatti, sia nei contesti domestici che lavorativi ha bisogno di essere conosciuta meglio, per essere affrontata correttamente.
Il 25 novembre 2023, giorno in cui si celebra la giornata contro la violenza sulle donne è stata una data importante, perché – forse quest’anno per la prima volta, anche a seguito degli inquietanti e continui episodi di cronaca che hanno riportato l’attenzione sul tema – sembra si sia registrato un cambio di passo nel processo di sensibilizzazione sulla violenza di genere e di consapevolezza sulla necessità di affrontarlo in un’ottica multidimensionale.
È, però, importante offrire una visione della complessità, sia dal punto di vista della maturità culturale dei contesti sociali e dell’impegno a sradicare gli stereotipi di genere, sia da quello degli strumenti che aiutino le donne ad affrontare e prevenire fenomeni di violenza.
Quali sono i campi oggetto della tua attività?
Nasco professionalmente come avvocata penalista che ha scelto come campo di intervento la difesa delle vittime di violenza. Quindi, ho collaborato per 26 anni con un centro antiviolenza nella difesa delle vittime (tendenzialmente donne e minori, ma non solo). Poi mi sono resa conto che lavorare sul tema della violenza poteva anche dire occuparsi della prevenzione e, quindi, ho sentito la necessità di avere una formazione che mi permettesse di intercettare le situazioni di violenza e di differenziarle da quelle di conflitto, che spesso nella mia ingenua inesperienza dell’epoca erano molto simili e ho approfondito questo tema diventando mediatrice. Mi sono specializzata in mediazione di situazioni altamente conflittuali, spesso inviate anche dal tribunale.
Integrare in questo percorso la formazione da counselor è stato un passo quasi necessario, che mi ha aiutato a imparare ad ascoltare le persone, i loro bisogni, i loro vissuti.
Il bello del counseling è che, oltre a essere una professione a sé, è anche un importante mezzo che permette di svolgere meglio le altre, in primis quella di avvocata, e spesso mi sono resa conto di quanto questa pratica possa fare la differenza. Un professionista che non la possieda nella propria cassetta degli attrezzi tenderà a proporre soluzioni più in base a ciò che sa fare che in relazione a ciò che è più utile. Nel tempo, poi, ho acquisito altre competenze (coordinatore genitoriale e curatore speciale del minore), mettendo sempre al centro la mia passione per gli esseri umani.
Ultimamente, infine, mi sono dedicata con passione al ruolo di consigliere di fiducia, una figura nuova per l’Italia, anche se in realtà è stata prevista per gli enti pubblici dalle normative internazionali già dagli anni ’90 e che, negli ultimi tempi, sta prendendo piede anche in ambito privato, perché riunisce in sé più competenze.
Il fatto di unire le esperienze come avvocata, mediatrice familiare e counselor mi ha dato la possibilità di concorrere per ricoprire questo incarico in un’azienda come Atm (Azienda trasporti milanesi) e anche in un’azienda privata molto più piccola. Il consigliere di fiducia, in sintesi, si occupa di benessere aziendale e interviene in tutte le situazioni di disfunzionalità relazionali in ambito lavorativo.
Quali sono a tuo avviso i segnali da non sottovalutare per prevenire fenomeni di violenza?
Purtroppo, nonostante tutta l’attenzione, la sensibilizzazione, l’attenzione dei mass media e il susseguirsi delle leggi, è un fenomeno in continuo aumento. La violenza sulle donne ha molte facce, tra cui le principali sono quella domestica, che viene chiamata “interpersonale” e quella lavorativa.
E i dati ci parlano di numeri estremamente significativi: ovviamente partono da questionari anonimi, perché il sommerso è altissimo. Non parliamo solo di violenza di genere o tra generi, ma all’interno dei luoghi di lavoro esistono forme di violenza “istituzionalizzata”, che fonda il suo presupposto su uno squilibrio di potere, che è poi la spina dorsale, il meccanismo che la alimenta. Le molestie sia nei luoghi di lavoro che nelle relazioni personali nascono sempre quando qualcuno, che per qualche ragione ricopre una posizione di maggior vantaggio (relazionale, economica, sociale, funzionale) all’interno della gerarchia lavorativa, esercita un potere su qualcuno che, invece, appartiene a un gruppo svantaggiato sempre per gli stessi motivi.
Sappiamo che storicamente il percorso di affermazione delle donne negli ambiti lavorativi è stato difficile e non paritario, ma essere donna non è l’unico fattore di rischio.
La violenza ha tante forme. Si pensa, di solito, alla violenza fisica, che è quella più facilmente riconoscibile nelle relazioni lavorative, anche se si dimentica che spesso è anche contro le cose: lanciare un telefono, spaccare un computer, tirare un pugno sul tavolo costituisce, comunque, violenza fisica.
Quella più diffusa, però, è la violenza psicologica. Anche qui non è solo l’aggressività verbale, gli insulti, alzare la voce, ma può essere anche passiva. Quindi, per esempio, avere un atteggiamento di indifferenza, di esclusione nei confronti di colleghi o di collaboratori, non rispondere immotivatamente alle mail, alle richieste di ferie, alle interlocuzioni da parte del team.
La violenza è molto subdola e acquista veramente tantissime forme. E la difficoltà principale è intercettarla, dare un nome a questi comportamenti, perché spesso si tende a giustificarli, sia da una parte che dall’altra e, quindi, a non entrare nel merito dell’utilizzo di strumenti corretti.
Poi c’è il mondo della violenza sessuale che si traduce, nei luoghi di lavoro, nelle molestie sessuali in cui rientrano tutti quegli atteggiamenti o battute sessisti o volgari, avances non corrisposte, la condivisione di documentazione pornografica, fino ad arrivare a contatti sessuali indesiderati che costituiscono un vero e proprio reato.
In merito a ciò la Convenzione dell’organizzazione del lavoro n. 190/2019 sull’eliminazione della violenza e delle molestie nel mondo del lavoro ha imposto a tutte le aziende l’obbligo di dotarsi di un Codice di condotta, arrivando a mappare con definizioni chiare e a esemplificare i comportamenti vietati, in modo che le persone capiscano bene che cosa è violenza e che cosa non lo è.
Vengono anche indicate le procedure di segnalazione, obbligatorie all’interno delle aziende.
Le aziende che hanno ritenuto di dotarsi del consigliere di fiducia prevedono un percorso informale che affianca e anticipa spesso quello formale che comunque ci deve essere. Il consigliere, come figura terza, ha una serie di possibilità di intervenire, anche nell’anonimato, e senza informare preventivamente l’azienda che poi è costretta ovviamente ad adottare i provvedimenti prescritti dalle norme.
Il primo intervento si basa sull’ascolto della persona che si ritiene vittima di certi comportamenti e di chi è accusato e può estendersi all’ascolto di testimoni o persone che hanno assistito o che segnalano, perché assistono quotidianamente a rapporti disfunzionali o anche semplicemente conflittuali. Dopodiché il consigliere di fiducia può decidere che tipo di strumento consigliare, anche secondo la volontà di chi gli si rivolge.
Uno degli strumenti che ho trovato più efficace è sicuramente quello di aiutare le persone che si sono trovate in queste situazioni ad avvalersi di un percorso di counseling individuale all’interno dell’azienda, in cui rivedere le proprie strategie di relazione, per imparare a stare sul luogo di lavoro in maniera sana ed equilibrata, nel rispetto delle personalità e dell’individualità di ciascuno.
Quali consigli daresti a un/una counselor che si trova davanti una problematica legata a un episodio di violenza di genere? Come aiutare il/la cliente? A chi fare un eventuale invio?
Secondo me è una situazione che potrebbe capitare frequentemente, perché credo che, dai numeri delle statistiche, le persone che vivono situazioni di molestie, di violenza e di mobbing siano molte. E la difficoltà di parlarne in azienda è evidente, perché è chiaro che ci sono ragioni di opportunità e timori di ritorsioni.
Invece, in un contesto protetto, come quello del counseling, la persona può raccontarsi.
Il consiglio è, intanto, di dare il giusto spazio a questi racconti, perché quello che mi è capitato più volte di vedere è che il tema della violenza è un tabù. E allora le persone, in maniera quasi istintiva, si ritraggono soprattutto se non hanno molta dimestichezza con il tema, che è difficile da affrontare: la tendenza è quella di spostare il focus su altro e di cercare di vedere se esistono altre spiegazioni.
In realtà è importante permettere che esista e poter nominare la violenza subita, per quello che è, quindi anche nelle sue sfumature più sottili. L’aggressività verbale, le modalità relazionali disconfermanti o le modalità comunicative non inclusive e denigratorie sono forme di violenza.
Il counselor è perfettamente in grado di capire se è necessario un intervento esterno o se è sufficiente un’attività di empowerment, per offrire strumenti di fronteggiamento che sicuramente servono.
La vittima va, comunque, aiutata a vedere il suo ruolo e a uscire dalla situazione. Riguardo agli invii, se esiste un consigliere di fiducia all’interno dell’azienda dovrebbe avere una competenza specifica in materia. Il counselor potrebbe anche valutare di fare un invio a un centro antiviolenza, per valutare insieme se esistono altri percorsi. Se c’è una denuncia e ci sono implicazioni penali potrebbe essere anche opportuno un invio da un avvocato specializzato.
Contestualmente, potrebbe essere aperto un contraddittorio anche all’interno dell’azienda ed essere necessario parlare con un esperto di diritto del lavoro che tratti i temi della molestia, in modo che la persona abbia poi il quadro completo e decida in totale autonomia qual è il percorso che sente più corrispondente.
Al fine di promuovere un clima organizzativo idoneo ad assicurare la pari dignità e libertà delle persone e di favorire, in tal modo, anche il cosiddetto “benessere lavorativo”, quali possono essere gli strumenti a disposizione di un/una counselor organizzativo/a e come le sue competenze possono integrarsi con quelle di altri professionisti preposti?
La presenza di un counselor è uno degli elementi che mi fa valutare positivamente un’azienda. Come consigliere di fiducia è una risorsa importantissima con cui io collaboro. Diciamo che il fatto di essere a mia volta counselor ovviamente mi permette di valutare e di conoscere nel dettaglio qual è l’apporto che può dare questo strumento. Quindi, nella maggior parte dei casi, io ho fatto degli invii al counselor perché trovo moltissima fatica e sofferenza nelle persone che vengono da me, soprattutto in quelle che decidono di non intraprendere un percorso formale, magari perché temono di danneggiare altri o l’azienda stessa. Proprio loro, invece, beneficiano tantissimo di un percorso di counseling che consenta di mettere a fuoco che cosa vogliono veramente e, magari, di cambiare idea e di tornare a me con richieste di procedura formale.
È una collaborazione estremamente proficua. Le persone vanno molto volentieri dal counselor, quando capiscono di che cosa si occupa e tutte hanno un ritorno molto positivo, anche perché non si vergognano di accedere a una forma di relazione d’aiuto che non conclama la loro fragilità.
Un’ultima domanda. Per fare cultura contro la violenza di genere e in particolare contro violenza e molestie nei luoghi di lavoro da dove occorre partire? Quale messaggio ti piacerebbe dare?
Il lavoro più grande da fare è sulla consapevolezza e sulla cultura, per allenare le persone a riconoscere quando attivano gli stereotipi in maniera automatica. Il linguaggio a questo proposito costituisce un’ottima palestra. È un lavoro continuo, di affinamento della sensibilità a raccogliere anche impercettibili segnali.
Tutti quanti noi tendiamo ad abbassare inconsciamente l’asticella di ciò che tolleriamo, ma è proprio questa invisibile e costante erosione del concetto di ciò che è lecito che, poi, permette il compimento di fatti gravi. Questi costituiscono la punta dell’iceberg, perché poi quello che succede quotidianamente è che alcune forme di violenza, anche se consistono forme di micro-aggressione, vengono accettate.
È indispensabile, perciò, che tutti ci impegniamo ad avere un atteggiamento più attento, senza permettere, ad esempio, che gli ambienti domestici e di lavoro siano inquinati da un linguaggio costantemente volgare e aggressivo, che potrebbe preludere a fatti intollerabili.
Lara Benetti
Svolge l’attività di avvocato penalista da 25 anni, esperta in diritto penale della famiglia, diritto minorile, diritti umani. Collabora, fin dalla sua nascita con l’Associazione Soccorso Violenza Sessuale Donna Aiuta Donna (Svsdad onlus), che affianca il servizio di Soccorso Violenza Sessuale e Domestica (Svsed) attivo presso la Clinica L. Mangiagalli di Milano, associazione della Rete Antiviolenza del Comune di Milano, fornendo attività di consulenza e assistenza giudiziaria alle persone offese dei reati connessi alla violenza di genere.
Dal 2011 è diventata mediatrice familiare e si è appassionata alla gestione dei conflitti, in particolare a quelle situazioni caratterizzate da elevata conflittualità, ai limiti con la violenza. Nel 2014 si è formata come counselor. Con il ruolo di consigliere di fiducia, Person of Trust, offre da alcuni anni alle Organizzazioni interessate consulenza e assistenza allo scopo di prevenire e contrastare ogni forma di violenza, attraverso la costante attività di ascolto, informazione e formazione, e attraverso la predisposizione di specifiche procedure di gestione dei casi.