Marco Girardello (a sx nella foto) – socio della cooperativa bee.4 altre menti, che opera nel carcere di Bollate – e Salvatore Torre (a dx nella foto) – ergastolano detenuto da 33 anni – raccontano come la nostra professione possa davvero fare la differenza nel percorso di vita di una persona detenuta.
Intervista a Marco Girardello
Quando nasce, di che cosa si occupa e dove opera la cooperativa bee.4 altre menti?
Nasce 11 anni fa dall’idea di un detenuto alla ricerca di un riscatto per se stesso, una risposta per il suo presente e il suo futuro, un’occasione per dimostrare che sapeva fare altro, oltre a essere un buon criminale.
Nelle carceri il lavoro è poco presente, anche se rappresenta un punto cardine per dare un senso al percorso delle persone detenute.
Nel carcere di Bollate sviluppiamo servizi alle aziende, diversi dalle attività artigianali normalmente proposte. Si tratta di attività complesse ad alto valore aggiunto e caratterizzate dalla qualità, perché in carcere sono presenti molti talenti e competenze che hanno solo bisogno di essere alimentati e coltivati. Abbiamo un contact center per servizio post vendita, assistenza clienti e supporto tecnico, ma ci occupiamo anche di rigenerazione di distributori automatici e di macchine da caffè. La cooperativa impiega circa 200 persone di cui 186 detenute a Bollate e, da giugno, 10 a Vigevano – una realtà particolarmente difficile – per un fatturato complessivo di 4 milioni di euro. Il contact center è fisicamente ubicato in spazi ricevuti in comodato d’uso all’interno del carcere.
Come e quando è nata l’idea di proporre uno sportello di counseling alle persone detenute nella Casa di reclusione di Bollate?
È nata un po’ per caso dalla generatività delle relazioni. Siamo ibridi meticci, ci piace sperimentare, mescolare pratiche che riteniamo utili.
Nel 2019, durante un evento, siamo entrati in contatto con una counselor particolarmente motivata, che ci ha proposto questa pratica. Ci è parsa un’idea salutare, utile e sensata. Ci abbiamo lavorato durante la pandemia e i primi colloqui sono partiti a marzo 2020 con le counselor Daniela Airaghi (professional counselor) e Monica Pizzamiglio (professional advanced counselor), socie di AssoCounseling (ndr).
Come viene promossa questa iniziativa e chi può accedervi?
Lo sportello di counseling è rivolto ai soci e alle socie bee.4, non a tutta la popolazione del carcere. All’interno del nostro perimetro di intervento abbiamo uno spazio di manovra anche legato al welfare di colleghi e colleghe. Ogni anno organizziamo momenti di presentazione dello sportello di counseling con counselor e testimonial e raccogliamo l’interesse di chi vuole sperimentare il percorso. Siamo alla seconda edizione e finora l’iniziativa ha coinvolto circa 80 persone, tra gruppi e incontri individuali.
Come è stata accolta la proposta?
Prima di proporre il progetto, ne abbiamo parlato in assemblea e lo abbiamo condiviso con alcune persone che ci sembravano più rappresentative. Non è stato calato dall’alto. È stato accolto con curiosità e disponibilità, grazie anche alle testimonianze di chi aveva già partecipato e ne aveva tratto beneficio.
Anche se, ovviamente, non è uno strumento adatto a tutti e certamente non è obbligatorio.
Con quale modalità e frequenza avvengono i colloqui?
I colloqui individuali si svolgono tramite call, utilizzando la strumentazione tecnologica della cooperativa, in modo da semplificare la liturgia legata all’organizzazione del carcere. La pandemia ci ha permesso di sperimentare questo strumento che si è rivelato utile e versatile.
Oltre ai colloqui individuali, si tengono gruppi in presenza con una cadenza quindicinale, che coinvolgono 10/15 persone. Dopo il progetto pilota che ha previsto anche gruppi maschili, oggi i gruppi sono dedicati alle donne, che rappresentano una minoranza all’interno del carcere e che spesso hanno tratti di estrema vulnerabilità, di difficoltà linguistica e tecnologica per cui non riusciamo a coinvolgerle nelle call individuali. Quando all’interno del gruppo si presenta la necessità, si cerca di organizzare approfondimenti individuali.
Generalmente, il ciclo di colloqui individuali prevede 8/10 incontri con cadenza quindicinale, mentre gli incontri di gruppo sono una dozzina.
Quale valore aggiunto può rappresentare il counseling nel percorso di vita di una persona detenuta?
Ogni strumento che apre le porte alla dimensione del lavoro interiore, alla conoscenza delle dinamiche che ci abitano e spesso governano è sicuramente utile per alimentare un rapporto salutare con se stessi e con il mondo esterno, non solo in galera, ma a maggior motivo qui. All’interno di alcune carceri esistono anche altri strumenti come la meditazione, i gruppi di consapevolezza o il teatro, che lavorano in questo senso, mentre credo che il counseling sia meno diffuso.
Come vengono regolamentati i rapporti detenuto/counselor/cooperativa/carcere?
La galera è sullo sfondo. Come cooperativa abbiamo ottenuto da parte del carcere il permesso a procedere con quest’attività che andava a coltivare il benessere dei nostri colleghi e colleghe. In carcere sono presenti figure di aiuto che però non hanno il mandato di supporto alla difficoltà della persona, ma hanno un mandato di osservazione e di rieducazione che tende a essere, ovviamente, giudicante e interventista. In galera sono molto rare le occasioni in cui le persone possono mostrare le proprie fragilità, avere a disposizione un ascolto e un supporto non giudicante. Siamo partiti proprio da lì, da questa etica di servizio.
Avete progetti futuri rispetto allo sportello di counseling nelle carceri?
Stiamo lavorando al progetto di creare una continuità sull’attività di gruppo che, se ben gestita, ha un potere di insight e di supporto molto forte, prevedendo poi anche approfondimenti individuali. Da due anni abbiamo una convenzione con il Centro Berne per il tirocinio di counselor in formazione e riceviamo un finanziamento parziale per i gruppi. Otto colloqui sono una bella opportunità, ma crediamo che sia necessario continuare a coltivare l’insight e i percorsi, altrimenti il rischio è di non riuscire a “mantenersi in bolla”.
Intervista a Salvatore Torre
Qual è stato il tuo percorso e come sei arrivato nel carcere di Bollate?
Sono stato arrestato nell’ottobre 1991 e condannato all’ergastolo ostativo per associazione mafiosa e omicidi legati a una guerra tra bande armate. Ho trascorso quasi 29 anni nelle carceri di alta sicurezza in giro per l’Italia, convinto che non ne sarei mai uscito. Nel 2019 la Corte Costituzionale ha emesso una sentenza che stabiliva come illegittimo l’obbligo per gli ergastolani ostativi di diventare collaboratori di giustizia come unica possibilità per accedere ai benefici penitenziari. Ho fatto richiesta e lo stesso anno il direttore del carcere di Saluzzo ha deciso per la mia declassificazione a ergastolano normale. Sono quindi stato trasferito al carcere di media sicurezza, prima ad Alessandria e, dopo pochi mesi, a Bollate.
Quando e perché hai deciso di intraprendere un percorso di counseling?
Faccio una premessa. Nel 2019, dopo tanti anni nelle carceri di alta sicurezza, che prevedono un regime molto più duro rispetto a quelle di media sicurezza, mi sono trovato in una situazione molto diversa. Di solito, nelle carceri di media sicurezza puoi frequentare corsi scolastici, di cucina, la palestra, però è tutto programmato. A Bollate, invece, hai anche la possibilità di darti tu delle autonomie. Appena arrivato, ho cominciato a lavorare alla cooperativa bee.4 nel call center per la gestione dei clienti in ambito energetico. Mi hanno formato e mi hanno assunto. Il call center è dentro al carcere, ci sono solo 200 metri tra la mia cella e l’ufficio, ma cambia tutto. Quando entri alla bee.4 si interrompe l’idea del carcere: è un luogo di comunità, di lavoro, di colleghi, sei un uomo che lavora, libero di muoverti. Hai autonomia di pensiero, ti dimentichi di essere in detenzione, non ci sono agenti intorno, sei in contatto con i colleghi e con il mondo e le persone di fuori, i clienti, i fornitori. È come un micro ambiente esterno creato all’interno della prigione. Ecco, oltre al lavoro, la bee.4 propone ai propri soci anche strumenti di sviluppo interiore. Ho assistito alla presentazione dello sportello di counseling e sono stato incuriosito soprattutto dai racconti dei miei compagni che avevano già provato l’esperienza. Così ho chiesto di partecipare anch’io.
Che aspettative avevi?
In tutti questi anni ho cercato di capire chi ero stato e perché. Ho fatto un lungo e profondo lavoro sul mio passato, ma sempre da solo, senza ricevere stimoli da altri. Speravo quindi, attraverso un confronto, di riuscire ad approfondire la comprensione di me, di scoprire qualcosa che mi era sfuggito. Sono abbastanza introverso e intuivo che questo percorso poteva aiutarmi anche a riconoscere e manifestare meglio le mie emozioni.
Come si è svolto il tuo percorso di counseling?
Inizialmente, durante gli incontri individuali, ho avuto la possibilità di rivolgere sia a me che alla counselor alcune domande per cercare di capire profondamente le ragioni del mio comportamento, di quello che avevo fatto. Siamo riusciti a raccontarci e a sviluppare degli argomenti per me molto indicativi. Poi ho partecipato al primo incontro di gruppo che mi ha cambiato la prospettiva: sono riuscito a comprendere quello che mi era sfuggito, che la persona può rappresentare esteriormente un modo di essere, mentre dentro di sé magari ha tutt’altro. Io, per esempio, sono uno che sta un po’ sulle sue.
Che cosa ha rappresentato per te questo percorso?
L’occasione di capire meglio non solo me stesso, ma anche gli altri. Tutti abbiamo pregiudizi che ci fanno stare un po’ sul “chi va là”. Nel gruppo abbiamo avuto la possibilità di andare oltre quei pregiudizi. Ho capito che la conoscenza dell’altro ti fa superare qualsiasi pregiudizio. Anche se non condividi il suo comportamento, però riesci a capirlo. Il gruppo è stato un momento davvero emozionante, sia nel raccontare me stesso che ad ascoltare i racconti dei miei compagni e delle counselor. Assorbivamo l’emozione degli altri e offrivamo la nostra. Ho scoperto l’umanità dell’altro e allora mi sono detto: «Oh cavolo! Allora esiste, allora ci siamo». Ho capito che tutti abbiamo un’umanità spiccata e profonde emozioni che ti sorprendono.
Come si è concluso il tuo percorso?
A un certo momento, è stato qualcosa di naturale, come un’intuizione improvvisa. Eravamo tutti in gruppo, mi sono come estraniato e ho guardato le persone con cui avevo condiviso questi incontri. Ho colto il valore mio e del percorso interiore che avevo compiuto, come se di colpo avessi visto e compreso veramente me stesso. Ho pensato: «Adesso mi sono scoperto». Mi sono molto emozionato, è stato davvero bello.
Esiste un elemento particolare che ha caratterizzato la tua esperienza?
Anche le counselor del gruppo hanno condiviso pezzi della loro vita ed emozioni con noi. Secondo me è proprio questo che differenzia il counseling da altre esperienze che ho avuto in carcere. Quando vai a parlare con lo psicologo o il criminologo lo fai con la consapevolezza che sarai giudicato per cosa dirai, come ti muoverai. Non puoi permetterti di essere spontaneo. Qui invece ho vissuto la libertà assoluta di essere me stesso, senza paura di essere giudicato, senza pensare a nulla rispetto al concetto di giudizio.
Se e come ha influenzato la tua prospettiva?
Mi ha cambiato lo sguardo nei confronti degli altri. Quel sentire l’altro, avere la consapevolezza che solo conoscendo una persona puoi scoprire chi è e capirla e quindi puoi anche non scappare, puoi essere meno distante, puoi scoprire le cose belle che ha. Perché tutti abbiamo del bello dentro. Il pregiudizio non va mai bene, c’è sempre una profonda umanità in tutti noi.
E rispetto al tuo percorso di vita?
Mi sono sempre rimproverato tanto per il mio percorso di vita. In tutti questi anni sono stato severo con me stesso; è servito molto, però mi ha anche un po’ castrato nelle esperienze e nel riuscire a pensare al futuro. Mi riconoscevo nella persona diversa che ero diventato rispetto a prima, ma mi rimproveravo lo stesso, ero bloccato. Con il counseling ho capito che anche dentro di me c’è una profondissima umanità, del bello, che fa sì che io sia la persona che sono oggi. Sono riuscito a valorizzare questa mia umanità e l’importante percorso interiore che avevo fatto prima da solo.
Come immagini il tuo futuro?
Dal 2020 ho cominciato a pensare alla possibilità di uscire e da lì ho ricominciato a progettare il mio futuro. Da due anni e mezzo accedo ai benefici penitenziari, posso uscire 3-4 giorni al mese. A breve avrò l’udienza per la semilibertà e, se tutto va bene, dovrò rientrare in carcere solo a dormire. E, dopo qualche anno, spero nella condizionale. Siamo ottimisti. Il progetto è di trasferirmi appena possibile a Torino, dove stanno mia madre e i miei fratelli. E dove sta Luna, la mia compagna, che ho incontrato a dicembre 2022. Abbiamo già cominciato a mettere le basi e a concretizzare il nostro progetto di vita, inaugurando lo scorso luglio il nostro bar boutique: abbiamo ampliato il suo piccolo negozio di interior design con un locale adiacente che è stato adibito a bar. Tra gennaio e febbraio avremo un figlio o una figlia, ancora non si sa.
Una volta che tu interiorizzi una consapevolezza, poi quella ti porta a raccogliere naturalmente gli stimoli degli altri.
Biografia di Marco Girardello
Appassionato del mondo dell’esecuzione carceraria, nel corso della sua esperienza professionale si è dedicato tanto all’aspetto della formazione professionale delle persone detenute quanto allo sviluppo e alla gestione di imprese impegnate a portare lavoro in carcere. Ha operato in istituti di pena in Piemonte, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e ha partecipato ai lavori di network tematici promossi dal FSE (Fondo sociale europeo). Dal 2019 è socio della cooperativa bee.4 altre menti, attiva all’interno della II Casa di reclusione di Bollate e della Casa di reclusione di Vigevano, dove impiega complessivamente circa 200 persone detenute in attività lavorative.
Biografia di Salvatore Torre
Salvatore Torre, 53 anni, siciliano, è un ergastolano detenuto dall’età di vent’anni. In carcere ha conosciuto lo studio e si è avvicinato alla cultura attraverso la lettura, la sua grande passione. Ha partecipato come autore a diverse edizioni del Premio Goliarda Sapienza, il più importante concorso letterario europeo rivolto alle persone detenute, ottenendo numerosi riconoscimenti. Nel 2018 ha vinto il Premio Vatican News.
Nel 2019 ha pubblicato “Atonement. Storia di un prigioniero e degli altri” (Libreria Editrice Vaticana). Dal 2020 è impiegato presso la bee.4, dove ha conosciuto e sperimentato il counseling.